Negli anni ’50 e ’60, la via del Vecchio Macello non si chiamava così, ovviamente. Non ricordo nemmeno che nome portasse. Si attaccava a quella che oggi è via Tirano per poi andare a interrompersi dove da anni c’è la stazione delle corriere. Da lì bisognava o tornare indietro o scendere lungo il muro orientale del cotonificio Fossati, percorrendo quella stradetta dal fondo cementato che è rimasta praticamente tale e quale.
Proprio dietro la stazione ferroviaria, lungo quella via, c’era il Macello.
Ricordo quando era in funzione, quando dal cancello entrava qualche camion con il triste carico di mucche da trasformare in bistecche. Oggi la costruzione principale è stata restaurata e fa parte del nuovo complesso utilizzato dall’Unione Artigiani di Sondrio e dalla Banca Popolare.
Quando ero bambino, invece, il Macello rappresentava il limite sud della città. Al di là di esso c’erano solo prati. Io passavo di lì quando avevo a che fare con mio zio Renato che teneva le mucche in vicolo Dolzino e ogni tanto mi portava sul suo trabiccolo per la raccolta del fieno.
Mi è sempre sembrata una zona un po’ triste, non solo per la presenza del Macello, brutta costruzione, ma anche per i fischi delle locomotive che facevano manovra in stazione. Soprattutto quando pioveva, mi sembrava il luogo più desolato del Pianeta.
Una sera di fine primavera (avevo diciassette anni) presi la bicicletta per fare una breve pedalata liberatoria. Avevo avuto una discussione con mia madre, mi ero irrigidito sulle mie argomentazioni senza il minimo senso critico. Il tipico comportamento adolescenziale. Svoltai in via Carducci, attraversai il sottopasso e imboccai la strada che passava davanti al Macello. Poi, in una delle due strette curve che portano verso l’attuale stazione delle corriere, scivolai sul terreno bagnato (era infatti piovuto tutto il giorno) e andai lungo e disteso sull’asfalto irregolare.
Dovetti tornare a casa a piedi, spingendo con fatica la bici che aveva avuto un guasto ai pedali. E quando mi tolsi i calzoni, vedendo la ferita lungo sulla coscia, svenni. Non era niente di grave ma mi fece impressione: un’estesa abrasione sanguinante.
Mia madre, scuotendo il capo, mi medicò, trattandomi come un bambino.
Questo racconto è scritto da Giuseppe Novellino e fa parte della rubrica “Bozzetti sondriesi”.