Se ponessi la domanda ai sondriesi, molti di loro non saprebbero dire dove si trova il vicolo Dolzino. Passano davanti al suo imbocco chissà quante volte al giorno, ma non sarebbero in grado di individuarlo attraverso quel nome.
Si tratta di un classico vicolo cieco. Si apre in via Nazario Sauro, proprio di fronte al Parco della Rimembranza, e si chiude a ridosso della stazione ferroviaria, dove c’era lo scalo merci.
Le case sono state per lo più ristrutturate, ma una volta erano alquanto rustiche e costituivano un piccolo agglomerato rurale nel corpo della città. Tre o quattro di queste case appartenevano alla famiglia di mio zio Renato, il quale aveva sposato la sorella più giovane di mio padre nel lontano 1956. Lui era un valligiano autoctono, lei veniva dalla lontana Irpinia. Fatto sta che Renato e Michelina (Chelina) misero su una bella famiglia, sfatando il detto: “Moglie e buoi dei paesi tuoi”. D’altronde anche la famiglia in cui sono nato era di tale natura.
Vicolo Dolzino è per me un luogo della memoria, perché vi trascorsi tanto tempo della mia fanciullezza. Mi piaceva giocare fra quelle vecchie case insieme ai miei cugini e ai miei fratelli. Mi piaceva nascondermi nei portoni e negli angoli di un passaggio oscuro che collegava vicolo Dolzino con quell’altro che oggi è diventato il prolungamento sud della via Cesare Battisti.
Zio Renato andava e veniva spesso con il suo motocarro: raccoglieva il fieno nei suoi prati lungo l’Adda e l’uva nelle vigne di Montagna. A volte ci faceva salire per fare l’ultimo pezzo di strada fino alla porta di casa.
All’inizio del vicolo si apriva un cancello che immetteva nella proprietà del dottor Patriarca. Lì, mio padre aveva preso in affitto un buco per metterci la macchina. Ricordo che si faceva una gran fatica a fare manovra. Io, neopatentato, rischiai un paio di volte di ammaccare la vettura. Ma una sera d’inverno (doveva essere il 1973 perché attendevo di discutere la tesi di laurea), tornando a casa ad ora tarda dopo una cena a Caiolo con i miei vecchi compagni delle superiori, feci quelle manovre con sveltezza e precisione spettacolari. La Centoventiquattro di mio padre si infilò nel box come un violino nella sua custodia. Il fatto è che avevo bevuto quel tanto di vino che fa vedere tutto rosa, che fa riuscire tutto alla perfezione…
Anche in quel vicolo di Sondrio.
Questo racconto è scritto da Giuseppe Novellino e fa parte della rubrica “Bozzetti sondriesi”.