Via Don Bosco corre, praticamente rettilinea, dal Raia fino al Cimitero. Si chiama così perché sfiora la chiesa di San Rocco e l’Istituto dei Salesiani. All’imbocco ci si poteva dissetare alla vecchia fontana, posta sull’angolo con via IV Novembre. Oggi c’è ancora, ma dietro di essa sorge la moderna e lussuosa casa di riposo, costruita sulle rovine del vecchio ricovero che i nostri nonni chiamavano Canua.
Negli anni ’50 e ’60 percorrevo quella via per andare all’oratorio di San Rocco e per fare visita ai miei zii, in via Visciastro. Per raggiungere il cimitero, invece, percorrevo la via Enrico Toti.
Ho un certo ricordo di quando la via Don Bosco era sterrata e si faceva un po’ di fatica a risalirla in bicicletta, verso lo slargo chiamato Raia. Transitavano pochi veicoli e si vedevano ancora carri di fieno, in estate, e motocarri con tini per la raccolta dell’uva, in autunno. Non posso fare a meno di ricordare Rocco Pedrazzoli che tornava dai suoi prati all’Agneda, passava davanti alla chiesa e qualche volta si fermava a richiamare il figlio Ernesto, che giocava con noi all’oratorio. Di lì passavano anche anziane contadine con la gerla e mia cugina Vilma. Quest’ultima era una florida e bella ragazza. Faceva il servizio a suo padre (mio zio Remo) agricoltore e allevatore, portando il latte a casa dei clienti. Montava una bicicletta nera, da donna, con i freni a bacchetta. Pedalava di lena e stava un po’ curva sotto il peso del contenitore che reggeva sulle spalle.
Una sera della tarda estate 1960, uscimmo dall’oratorio cogliendo nell’aria una certa agitazione. Seguendo altre persone, mio fratello ed io corremmo a vedere cosa era successo. Là dove la via Don Bosco fa una leggera curva dietro l’ospedale, era arrivata l’acqua dell’Adda. Negli ultimi giorni, la pioggia era stata davvero copiosa, concludendo così una stagione estiva di prevalente maltempo. E il fiume era esondato.
Ricordo di essere rimasto stupito e impaurito nel vedere tutta quell’acqua. Guardando laggiù, verso il cimitero, la via Don Bosco era completamente scomparsa. Solo le due file di alberi che la fiancheggiavano potevano in qualche modo ricordarne l’esistenza.
Questo racconto è scritto da Giuseppe Novellino e fa parte della rubrica “Bozzetti sondriesi”.